31.10.2022
Il mondo rurale.
Ci si immerge in un mondo parallelo, fatto di riti pagani e atti crudeli, quasi insensibili, carichi di una passione profonda, radicata e, cosa più importante di tutte, inconscia. Riti che si compongono di azioni meccaniche e ripetitive, che non sono mai state scoperte ma appartengono a queste persone da secoli e secoli. La preparazione del cibo non si insegna e non si impara: il suo nucleo, la sua vita, è un ancestrale fiamma di inconsapevole appartenenza alla Terra, di partecipazione a tutto un palcoscenico di ripetitivi atti quotidiani. Atti essenziali per la vita, senza i quali non esisterebbe l’essere umano. Tutti queste azioni, semplici, direi atomiche, compongono quadri di indicibile bellezza vera, non contaminate da fumi inquinanti o colori sgargianti per attirare un pubblico: questi quadri sono l’essenza stessa della vita perché la nutrono, le danno ciò di cui ha bisogno davvero, il cibo. Non le regalano corone d’oro o pesanti mantelli di seta, non l’accompagnano su carrozze intarsiate d’argento verso orizzonti e profili di palazzi e castelli capaci di forare il cielo, bensì la nutrono di carne e frutta e verdura ogni giorno, ogni volta che essa ha fame e sete: solo così esiste la vita.
05.03.2022
“L’idea di viaggiare mi nausea. Ho già visto tutto quello che non avevo mai visto. Ho visto tutto quello che non ho ancora visto. Il tedio dell’eterna novità, la noia di scoprire, sotto la falsa differenza di cose e idee, la perenne identità di ogni cosa, la somiglianza assoluta di moschee, templi e chiese, l’uguaglianza di una capanna ad un castello, la medesima struttura corporea fra un sovrano nei suoi abiti regali e un selvaggio nudo. L’eterna armonia della vita con se stessa. [..] Ah, viaggino coloro che non esistono! Per chi non è nulla, proprio come un fiume, scorrere deve significare vita. Ma coloro che pensano e sentono, a coloro che sono svegli, l’orribile isteria dei treni, delle automobili e delle navi, a costoro tutto questo non permette né di dormire né di svegliarsi.”
Il libro dell’inquietudine (cap. 122) – F. Pessoa
Da un secolo a questa parte, noi viaggiamo perché sono stati inventati gli aerei e i treni e le automobili. Viaggiamo perché questi cavalli di metallo corrono veloci sopra gli oceani e sotto le montagne e tagliano pianure e brughiere. Viaggiamo perché siamo indotti a credere che nell’eterna novità del diverso troveremo risposte, perché siamo schiavi di un capitalismo che si nutre del nostro denaro speso per mettere carburante nei motori e lenzuola nuove sui letti di hotel luccicanti.
Viaggiare significa rimandare al prossimo viaggio la stringente necessità di impegnarsi per cercare la verità, costantemente impauriti di scoprire l’essenzialità del vivere semplice. In un incessante girovagare pensando che la meta sia la scoperta continua, la “cosa nuova”, ci raccontiamo che così facendo saremo più globalizzati, più aperti all’altro, più “disponibili”.
Viaggiare, oggi, significa scappare da un se stessi che ci fa paura perché ignoto, troppo profondo da scoprire: nel visitare tutto gli angoli di questa sfera del Mondo ci dimentichiamo di coltivare noi stessi a prescindere da dove siamo, quasi a volerci nascondere dal piacere di scoprire ciò che c’è fuori di noi per evitare ciò che c’è dentro di noi.
27.01.2022
Il nostro vivere in comunità deve essere pluralista, aperto alla collaborazione e all’interazione ampliativa. Gli altri con i quali viviamo insieme gli spazi del mondo devono essere un’opportunità per trovare un elemento nuovo e buono di noi stessi. L’utilitarismo ha chiuso le porte in faccia all’altro come “condivisione” per ridurlo allo “sfruttamento”.
26.01.2022
“Sta diventando generale, ai nostri tempi, una grottesca incapacità dell’intelletto umano ad intendere che la vera garanzia della propria persona non si raccomanda già agli sforzi dell’individuo isolato, ma all’universale comunanza umana. Ma non potrà a meno di avvenire che scoccherà il termine anche a questo tremendo isolamento e tutti comprenderanno, una buona volta, quanto contrario alla natura sia stato il loro separarsi l’uno dall’altro”
I fratelli Karamazov – F. Dostoevskij
È necessario chiedersi come interpretiamo il vivere in società con altri individui: per il contributo che crediamo di dare o piuttosto per il giovamento che esigiamo di ottenere? Per natura necessitiamo di stare con un partner e con dei figli, questi sono due protagonisti delle nostre vite. Oltre a loro, tuttavia, cerchiamo il contatto sociale, cerchiamo l’altro come compagnia, come integrazione alla nostra quotidianità. Nella velocità del mondo di oggi, “l’altro“ ha preso la forma di uno schermo, ci rapportiamo con lui attraverso plastiche di qualche pollice di diagonale convinti di essere in contatto con il mondo, mentre siamo totalmente fuori strada. Centinaia di migliaia di anni di evoluzione sono stati possibili grazie alla nostra interazione uno di fronte all’altro: io ti guardo, tu mi guardi, io osservo i tuoi movimenti mentre ti pongo una domanda e tu mi rispondi anche con il tuo corpo. Invece, la comunicazione virtuale, sia la sua l’unilateralità sia la sua divisione da un telefono, ci stanno privando della profondità del cogliere l’altro che ci parla, che comunica e si comunica a noi. Ci stiamo isolando sempre di più, convinti, invece, di essere cosmopoliti perché il web ci permette di arrivare ovunque. Nel frattempo, dimentichiamo come si parla, come si ascolta, come si trasmette una sensazione, come si riceve un’emozione.
07.01.2022
“Non chiederti chi sei, perché non sei nessuno. Non sei mai esistito. Come me… Siamo degli impostori, in questo mondo che non è autentico, dove non c’è nulla di vero e il reale è un miraggio. Uniformi da ogni parte, copie di copie di copie, ogni vestito, ogni corpo, ogni anima, è un travestimento. La superficie è in ogni parte e il centro in nessuna. Un pezzo di pietra, un pezzo di carne, un’inondazione, un incendio, un massacro, lo stesso gioco ipocrita del vuoto. Siamo morti fin dall’inizio dei tempi. Nessuno è mai nato.”
Quando Teresa si arrabbiò con Dio – A. Jodorowsky
Questa è una di quelle riflessioni che mi coglie all’improvviso, alla sera tardi, quando ormai il cervello è stanco, spossato e quindi mi è molto più difficile imbrigliare i pensieri. Questo breve estratto, nel quale Teresa è impazzita contro il figlio Giacomo, mi suggerisce rassegnazione. Dico ciò perché essa traspare chiaramente come una ferma presa di coscienza dell’inutilità degli individui: il singolo essere umano è come se non fosse mai nato, il suo segno lasciato nella storia è, di fatto, nullo se paragonato a quello lasciato dalla totalità presa nel suo insieme.
È come se tutti noi, cittadini del mondo, fossimo attaccati ad una enorme ruota della quale solo un piccolissimo arco di circonferenza è illuminato da una lampadina. Giriamo e giriamo nel buio e poi, ad un certo punto, siamo noi quell’arco di circonferenza sotteso da un raggio grande come tutte le miliardi di vite elevate all’ennesima potenza, oltre tutti i numeri immaginabili del mondo. In quel frangente, che la storia ci concede, illuminandoci, ci crediamo indispensabili al ruotare di quella giostra. Ma quando l’età adulta è ormai inoltrata, abbiamo figliato e scritto qualche appunto qua e là su vecchi quaderni, cominciamo a vedere che il cono di luce che ci scalda sta giungendo al suo confine, sta per finire. Solo allora realizziamo che nulla di veramente nuovo abbiamo fatto, nulla di eclatante abbiamo prodotto in quell’infinitesimo quanto di tempo nel quale la luce della storia ci ha illuminato. E ci riscopriamo tristemente uguali agli altri migliaia di individui, con addosso i loro stracci e in testa le loro idee.
Tragicamente realizzare che anche il nostro vicino di casa, i nostri parenti, gli amici che abitano nel paese a fianco, i cugini emigrati in Argentina, tutti noi siamo monotonamente uguali ai nostri avi, solo con qualche usanza diversa ma con non poi troppe consapevolezze in più di loro.